Si danno talora casi, in arte, nei quali l’opera, il tema che essa tratta e il suo modo di esecuzione
paiono legati da un vincolo di stretta parentela, tanto armoniosamente e di pari passo procedono,
svolgendosi, per un cammino medesimo.
Da una confluenza di fattori costitutivi siffatta qualunque evento creativo trae evidentemente cospicuo
vantaggio nei termini della naturalezza immediata e della qualità espressiva, e persiste
un ambito nel quale l’accresciuta incisività cui facciamo riferimento si manifesta con un risalto
forse speciale, ed è la fotografia di documentazione o reportage, dove nulla appare così convincente
quanto ciò che deriva da una profonda coincidenza emotiva tra le parti in causa; luoghi, autore,
genti, persone.
Così, nel palafitticolo, gentile, fragile mondo delle comunità rurali birmane entriamo come
camminando attraverso le immagini che vedete, nate e condensatesi senza la guida di un’intenzione
o l’obbedienza a un progetto, ma solo dalla grazia leggera di un’immedesimazione istintiva
ed estemporanea. La loro autrice, Agnese Garrone, studentessa di regia con vocazione da fotografa,
le ha raccolte come una sorta di diario di viaggio per immagini, del genere forse degli acquerelli e
disegni che tedeschi e inglesi tracciavano sui loro taccuini percorrendo l’Italia due secoli fa, per 
con un senso differente; poichè, forse a causa della viva partecipazione con cui sono state realizzate,
le sue immagini sembrano articolarsi in un conseguente corpo unitario che possiede la struttura
della narrazione.
Per noi che le guardiamo dalle nostre città esse sono, certo, anzitutto testimonianza di
una cultura straniera e distante; e per, se poniamo maggior attenzione, altresì vi possiamo scorgere
il racconto di un passato lontano che tuttavia ci riguarda, e che irrevocabilmente abbiamo
perduto. Se è infatti vero che la nostra remota esistenza non si svolgeva su palafitte e nella coltivazione
di orti galleggianti, è bensì vero che anche noi, come le genti che compaiono nelle foto di
Agnese, abbiamo avuto un tempo vita di comunità, concretezza di mestiere utile al singolo quanto
alla sussistenza collettiva, religiosità sincera, immediatezza di relazione con i nostri simili; tutte cose
di cui se ci guardiamo attorno ritroviamo oggi ben poca traccia, e che possiamo riconoscere, come
svolte nella fluidit  della vita, attraverso le figure di queste opere.
Desta una certa sorpresa notare con quale senso empatico una ragazza di vent’anni, nata
e cresciuta in città, e in un’epoca senza passato, abbia ritratto in immagine le sfumature emotive,
la pensosità, la dignità del popolo che ha incontrato, in una maniera che, pur del tutto garbatamente,
induce per spontaneo raffronto a una riflessione seria sui nostri occidentali modi di vita.
La sensibilità di questa fotografa, del resto, poiché in un artista l’opera è lo specchio dell’anima
come gli occhi nelle altre persone, sta scritta gi  nel suo stile: quell’istinto per la pura composizione
geometrica che, se non basta da solo a determinare un fotografo eccellente ne costituisce tuttavia
una dote indispensabile, si esprime nei suoi scatti in forma gi  tipica, con naturalezza risolutamente
precisa, e anche con una grazia di ritmo mutevole e lieve, che conferisce alla costruzione
una qualità di intrinseca trasparenza, e che ben possiamo vedere, nel presente caso, quanto felicemente
si accordi con le irrequiete, fragili architetture dei villaggi birmani. Poi, questo gusto per
l’intreccio delle linee, questo piacere nel far risaltare gli elementi alterni o di contrappunto della
scena, insensibilmente cede all’andamento solenne e contenuto di certi ritratti, figure che nella
emplice concretezza della loro serietà sembrano avere qualcosa da insegnarci e anche la delicatezza
di non farcelo notare, e nei volti e nei gesti dei quali si rispecchia la partecipazione, il rispetto,
e una forma vera di amore, sentiti allora da chi oggi ce li presenta.
Oggi, il velo melanconico che aleggia sulle scene della vita di queste genti, microcosmo
arcaico in un mondo governato dagli algoritmi, assume una sfumatura tantopi è toccante, pensando
che tali immagini testimoniano dell’esistenza, stabilita e serena, di un popolo del tutto ignaro
di dover trascorrere, di là non molto tempo, nel dramma di un colpo di stato militare.
Nel Febbraio del 2021 il governo birmano è stato rovesciato, il parlamento sciolto, e il potere
assunto nelle mani del comandante in capo delle forze armate. Le proteste derivate in tutto il Paese
da quest’atto di forza sono state duramente represse con violenze e arresti, e con la proclamazione
dello stato di emergenza e della legge marziale. Con le linee telefoniche della capitale tagliate, la
sospensione delle trasmissioni televisive e l’accesso a internet bloccato, la comunicazione della
Birmania con l’esterno si è resa assai difficile, ma è certo che le proteste sono infine degenerate in
guerra civile vera e propria, che l’esercito brucia i villaggi, tortura e uccide i civili senza misericordia,
e che sono oramai migliaia i morti dall’inizio dei disordini.
Agnese mi ha proposto questa mostra, che ovviamente ho valutato e deciso di presentare
riferendomi in modo esclusivo al suo pregio artistico, nella speranza di poter prestare un aiuto alle
persone conosciute laggiù, e rimaste nel loro paese a fronteggiare questa situazione pesantissima.
Per me va bene. L’uomo è sempre la medesima nobiltà e sempre la medesima nefandezza, e poiché
io mi occupo per fortuna della nobiltà di quella parte della nobiltà che si chiama arte, non può
che gratificarmi l’idea di dare spazio a una giovane che, quale che ne sia stato il fattore motivante,
ha iniziato a cercare di aggiungere, con il proprio lavoro, qualcosa di bello a questo mondo.
Ciascuno ha un suo personale modo di coltivare la speranza – e la felicità .

Eugenio Bitetti

METTERSI IN CORRISPONDENZA CON LA VITA

Il luogo non è solamente presente. La sua storia, la sua identità, la sua anima, attende lo
sguardo di chi, curioso, aperto all’incontro, sa vedere. Di chi, non astraendosi nell’indifferenza all’altro da sé, ma rendendosi partecipe, ne fa esperienza viva.
L’abitare dell’uomo è in attesa di occhi fertili. Allora le diverse prassi sociali e culturali
condotte a racconto testimoniale, fotografico, diretto e intimo al contempo, a sintesi di un vissuto consumato all’interno di ambienti e quartieri, di piazze e campi, esprimono il valore di un’esperienza di coinvolgente lettura e scrittura. In un equilibrato bianco e nero sono qui ricordate le voci di un mondo che vive il giorno in costante dialogo tra le antiche tradizioni e le tante pretese della modernità.
Ricercatrice del tempo, la fotografa, non imponendosi alla scena, ma nel rispetto dell’interazione, da forma a uno scambio dinamico che è intreccio di domande e di risposte.
Semplicemente, ma mirabilmente, Agnese Garrone si fa autrice nel desiderio di favorire un itinerario conoscitivo di fragili apparenze (esistenze).

Giovanni Pelloso

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